Tutti sappiamo della “Divina Commedia” di Dante Alighieri ma poco o nulla ci si è soffermati sinora sul legame di diversi Canti del poema con la Ciociaria e in particolare con il Cassinate. Sul Monte Cacùme, presso Patrica, non è assolutamente ben certa e definita l’interpretazione. Infatti, oltre al nome del monte frusinate, cacume (dal latino cacumen) significa anche vetta, cima, per cui qualsiasi monte poteva essere indicato come cacume che era una parola molto usata nel Medio Evo. Dante la cita sia nel IV Canto del Purgatorio, parlando per allegorie, delle asperità del monte del Purgatorio fino alla cima (in cacùme) “vassi in Sanleo e discendesi in Noli, monta su Bismantoa e ‘n cacume” (lo scrittore reggiano Cesare Capone individua, a sua volta, il Purgatorio nell’astante monte Bismantova: su Bismantoa ‘n cacume = sulla cima del Bismantova) sia nel XVII Canto del Paradiso parlando sempre della cima (cacume) del Purgatorio “giù per lo mondo sanza fine amaro, e per lo monte del cui bel cacume con esso i piè li occhi de la donna mia mi levaro”. C’è poi da considerare che Dante non sapeva alcunché dell’esistenza di un monte chiamato Cacume né tanto meno lo aveva mai visto non essendo mai venuto, come appare evidente, in Ciociaria. Non è certo neanche qualche suo viaggio a Roma. Dante conosce il fattaccio di Anagni in quanto a lui contemporaneo; parla di Manfredi sepolto sul Calore nel beneventano ricavando la notizia dalle “Nova Cronica (VIII)” scritte da Giovanni Villani una quarantina di anni dopo la morte di Manfredi; descrive “Cassino” così come legge da Gregorio Magno. Non ci pare, dunque, che Dante Alighieri abbia mai visitato queste terre e soprattutto il Cassinate anche se è vero che nel 1296 e nel 1299 fece due viaggi da Firenze a Napoli per motivi politici ma il suo percorso seguì quello consueto nel suo tempo che era la Via degli Abruzzi (Firenze-Arezzo-Perugia-Spoleto-L’Aquila-Sulmona-Napoli). E’ certo però, come visto, che conoscesse il nostro territorio attraverso le cronache del suo tempo, la lettura dei “Dialoghi” di Gregorio Magno e la “Lectura super apocalypsim” del monaco francescano Petrus Joannis Olivi, suo contemporaneo, che nel 1296 descrive la decadenza morale dei monaci di Montecassino rispetto ai tempi originari : “avidi di possesso come in tempi come questi”. Dante iniziò a scrivere il suo Poema nel 1307 e cioè undici anni dopo l’Apocalypsim di Olivi. Il Poeta fiorentino, riprende quanto dice l’Olivi e ne parla nel Canto XXII del Paradiso facendolo dire a San Benedetto. Quando il Santo dice “la regola mia resta a danno delle carte” non si riferisce ad una eventuale abbandono della biblioteca ma bensì all’abbandono della sua Regola che era scritta su quelle carte. Nulla a che vedere, dunque con la biblioteca chiamando in causa persino Giovanni Boccaccio che visitò il monastero, durante un viaggio a Napoli nell’autunno del 1362, in cerca di documenti umanistici e, secondo quanto riferisce Benvenuto da Imola, trovò la biblioteca del monastero in completo stato di abbandono. Giosuè Carducci così ne narra: “Boccaccio saliva trepidando di gioia nella biblioteca di Montecassino tra l’erba cresciuta grande su ‘l pavimento, mentre il vento soffiava libero per le finestre scassinate e le porte lasciate senza serrami scotendo la polvere da lunghi anni su’ volumi immortali, e sdegnavasi a vederli mancanti de’ quadernetti onde la stupida ignoranza dei monaci aveva fatto brevi da vendere alle donne…”. Tornando a parlare di Dante, va detto che il Poeta fiorentino ben localizza il monastero scrivendo “quel monte a cui Cassino è nella costa” ripetendo le parole che Gregorio Magno scrive nel VI secolo nei suoi Dialoghi : “Castrum namque, quod Casinum dicitur, in excelsis montis latere situs est” e cioè “il castrum che è chiamato Casinum, è situato su un lato dell’alto monte”. Gregorio Magno si riferiva inequivocabilmente all’antica Casinum e la individuava nel castrum di epoca romana. Cinque secoli prima, in epoca augustea, invece, il geografo Strabone aveva definito Casinum una urbs, cioè una città. Dante Alighieri la chiama e dà, in qualche modo, continuità al nome che usa Gregorio Magno. Non fa alcun cenno a San Germano che era il nome della città ai suoi tempi. Ma perché Cassino e non Casinum? Perché l’italianizzazione in Cassino e non in Casino? Dall’Abate di Montecassino, Luigi Tosti, sappiamo che, fino ai primi anni del 1800, nella Divina Commedia si leggeva Casìn (elisione di Casin’um) cioè “ quel monte a cui Casìn è nella costa”. Dopo dieci secoli la città di San Germano assunse il nome di Cassino il 23 maggio 1863 e, per più agevole interpretazione, anche nella Divina Commedia Casìn divenne Cassino. Il fiume che Dante chiama ancora “il Verde”, ritorna nel Canto III del Purgatorio. E’ sempre Manfredi di Svevia che qui parla della sua morte nella battaglia di Benevento del 26 febbraio 1266 contro gli Angioini e delle sue spoglie che, tradizione vuole, l’Arcivescovo Bartolomeo Pignatelli, per ordine di Papa Clemente IV, non volle sepolte nel proprio territorio e anzi ordinò che le ossa fossero sparse al di là del Verde, fuori dai confini del “Regno”: “Or le bagna la pioggia e move il vento di fuor dal regno quasi lungo ‘l Verde”. Giovanni Villani, ai primi del XIV secolo, con molto scetticismo non si pronuncia circa la profanazione della tomba e quindi sulla dispersione delle ossa di Manfredi. A questo punto credo sia il caso di affrontare in qualche modo la questione del fiume Verde. Dovrebbe trattarsi, a mio modesto parere, dell’ultimo tratto del Liri e cioè il Garigliano che, nel Medio Evo era chiamato proprio Il Verde, che scendeva dal sud di San Germano al Mar Tirreno e probabilmente del tratto mediano fra Castelforte e Minturno (Traetto). Questa era una landa spopolata, considerata “terra di nessuno”, al di fuori del Regno di Napoli e diviso dal Regno Pontificio dal ducato normanno di Gaeta. Ma c’è anche una suggestiva ipotesi dello studioso del meridionalista Giuseppe De Simone che ci ricorda come Strabone nel Libro III della sua Geografia ci parla di un Verestis fluvius in territorio fra Palestrina e Ceprano (il fiume Sacco). Nel Medio Evo divenne Veredis e quindi Viridis come riporta nell’ VIII secolo Paolo Diacono. Il Viridis (Verde) a “Ceperanus” confluiva nel Liri che prendeva anch’egli il nome Viridis (Verde). Di lì la tradizione che vede al centro della vicenda proprio Ceprano. L’azione dell’Arcivescovo Pignatelli, voluta da Papa Clemente IV, scaturiva da un paio fattori: il primo è che Manfredi, figlio dello scomunicato Federico II di Svevia e Re di Napoli e di Sicilia, era stato anch’egli scomunicato da ben tre Papi, pur dopo il giuramento a papa Innocenzo IV, per via delle sue relazioni politiche con le colonie arabe del Mezzogiorno ed egli stesso Re di Napoli dalla morte del padre. Il secondo è che la Chiesa aspirava da sempre ad avere influenza sul Regno napoletano e quindi all’epoca vide nel cattolico Carlo d’Angiò il Sovrano a suo parere più confacente per il Regno di Napoli che potesse sostituire un ingovernabile spirito libero come Manfredi. La narrazione popolare vuole che le ossa di Manfredi riposino nella chiesa di Sant’Arduino a Ceprano essendo state raccolte, si dice, proprio in quei dintorni. Mi permetto di dire che questa narrazione non mi convince. Perché partire da Benevento e andare a spargere quelle ossa in luogo così lontano come quello di Ceprano per di più non molto distante dal Soglio Papale e non, come sarebbe più credibile, sulla sponda destra del Garigliano e sempre fuori dai confini del Regno di Napoli e lontanissimo da Roma. Circa le sua ossa nella chiesa di Sant’Arduino lascio parlare, fra tutti, il medievalista tedesco Ferdinand Gregorovius che riteneva quel racconto non più di una leggenda confermando , fra l’altro, un’ipotesi seicentesca e individuando il ponte “Leproso”, nei pressi del fiume beneventano Calore, escludendo quindi che si potesse trattare di un ponte sul fiume Liri a Ceprano. C’è poi uno studio dell’ Università di Graz (Austria), che sul finire del 1800 avanzava addirittura l’ipotesi che quelle ossa nella chiesa di Ceprano non fossero né di Sant’Arduino né tanto meno di Manfredi ma bensì del Duca d’Austria Leopoldo VI Babemberg morto a San Germano il 28 luglio 1230, cinque giorni dopo la firma della pace fra Federico II e Papa Gregorio IX. Riguardo ai resti di Manfredi nella chiesa di di Sant’Arduino a Ceprano c’è, a mio avviso, un’ altra grande e forse voluta svista. Nel Canto XXVIII dell’Inferno, in cui Dante colloca i “seminatori di discordia”, si fa accenno a Ceperanus e ad ossame. Non c’entrano nulla le ossa di Manfredi. Vi si parla dei resti dei morti nelle battaglie di Ceprano (1266), di Benevento (1266) e di Tagliacozzo (1268) fra Svevi e Angioini. Delle ossa di Manfredi, come visto, si parla nel Canto III del Purgatorio. Cito anche alcune considerazioni che nel 1997 faceva Mario Maceroni: “Sulla fine dei resti mortali del sovrano sono state avanzate diverse ipotesi. La più probabile è che dopo il casuale ritrovamento siano stati dispersi nelle acque del fiume. In tempi recenti, più di un ricercatore ha creduto di identificare la bara di Manfredi in un sarcofago murato presso l’altare di S. Arduino. In realtà si tratta del frammento di una bara di epoca medievale. Non solo dietro il frontale della bara non vi sono resti umani, ma è da escludere che uno scomunicato potesse trovare sepoltura in una chiesa”. Nel 2017 lo studioso Francesco Morante non solo esclude l’ipotesi della cripta a Ceprano ma addirittura identifica il fiume “Il Verde” con il fiume Calore, anche lui dai riflessi verdastri, nei pressi di Benevento, dove Manfredi morì nella battaglia contro Carlo d’Angiò. Il nome Calore al fiume, d’altronde, deriva dal greco chloros (χλωρός) che significa proprio verde (siamo pur sempre nella Magna Grecia). Questo fiume, però, non ci pare lontano dal Regno di Napoli né, tanto meno da territorio di pertinenza del Regno Pontificio di cui il Ducato di Benevento faceva parte. Su questo punto concordano Francesco Morante e Maria Teresa Valente che asseriscono come quando si parla “del Regno” ci si riferisse contemporaneamente a Benevento (Regno Pontificio) e al Regno di Napoli e poi al fiume ai confini fra il Regno di Napoli e il Regno Pontificio. E quale può essere se non il Liri-Garigliano?
Benedetto Di Mambro