“Annunziata”: il libro arriva II° al concorso ‘Una storia per il cinema’. La parola all’autore Fabio Graffiedi

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Ci troviamo in compagnia di Fabio Graffiedi, autore di “Annunziata“, libro che è risultato il secondo classificato della prima edizione del concorso Editoriale “UNA STORIA PER IL CINEMA”. Il premio ricevuto sarà la realizzazione di un cortometraggio che verrà girato in primavera.

Lei è professore di lingua spagnola; ci racconta a tal riguardo la sua esperienza formativa all’estero?
Fui uno dei primi studenti Erasmus che, studiando a Valencia, ebbe la fortuna di potervi scrivere la propria tesi di Laurea.
Il mondo accademico di quella città mi aprì porte importanti, consentendomi di seguire corsi di dottorato che più tardi mi portarono a pubblicare su una rivista letteraria importante, in America Latina (El Macrotexto del Romacero gitano de F.García Lorca, La Torre, Universidad de Puerto Rico, 1996), dove mi ritrovai poi a trascorrere l’ultimo anno di un dottorato in Iberistica. Il risultato delle mie ricerche fu la stesura della tesi dottorale: Juan Ramón Jiménez e il Modernismo, poi pubblicato da Bulzoni per il Consiglio Nazionale delle Ricerche. Il libro ricevette una buona accoglienza in Spagna (diablo texto, Revista de Crítica Literaria n° 3, 1996).
In Italia, al contrario, vissi il comune calvario del precariato per assicurarmi una cattedra nella scuola pubblica e il motivo è presto detto.
Avete presente il destino della ricercatrice precaria che ha isolato il coronavirus?
Nel senso comune delle persone la sua opera si traduce in qualcosa di immediatamente utile. Ma può la ricerca, in questo paese, meritare lo stesso rispetto occupandosi di poesia e letteratura, quando gli stessi scienziati che ci salvano la vita sono trattati peggio dell’ultimo degli insegnanti? Parlando di cinema, davanti alle parole “poesia” e “letteratura”, dovreste provare a immaginare l’espressione di un Cetto la Qualunque per avere un’idea di quale sia l‘atteggiamento prevalente in questi casi.
Non vorrei dare l’impressione di piangermi addosso perché in tanti anni ho sempre mantenuto il dignitoso silenzio dei ricercatori come me, non ultimo il povero giovane Regeni, onesto talento che pur pagando con la vita ha dovuto conoscere l’insulto del “se l’è andata a cercare”.
Ma visto che per una volta mi si chiede dell’esperienza formativa all’estero voglio provare a raccontare almeno un episodio esemplificativo del confronto con quella nazionale.
Ricordo che più di venti anni fa qualcuno, in università, mi fece pervenire un articolo del Académico de la lengua Manuel Alvar, dove il cattedratico si compiaceva del ritrovamento, tra i manoscritti di Juan Ramón Jiménez, di una preziosa lettera del Nobel spagnolo in risposta ai surrealisti Dalí e Buñuel. Alvar chiosava il suo intervento augurandosi che giovani ricercatori volenterosi si spendessero nel metter mano ai più di quarantamila manoscritti ancora in gran parte sconosciuti e conservati nella sala Zenobia e Juan Ramón Jiménez.
Peccato che Manuel Alvar non sapesse che il documento proveniva proprio dalla tesi di dottorato di un siffatto ricercatore, che aveva investigato per un anno proprio in quella sede, presso l’Università di Río Piedras a Porto Rico. Copia fotostatica del famoso documento: “A mis muy surrealistas conocidos” compare precisamente oggi alla pagina 194 della mia tesi di dottorato pubblicata da Bulzoni per il CNR. Ma a quel tempo il sottoscritto doveva attendere un anno intero che i componenti della sua commissione esaminatrice prendesse in visione il suo lavoro. Uno di questi si fregò la lettera per fare la sua bella figura in qualche conferenza in giro per la Spagna mentre il povero dottorando, anziché prestarsi alla vecchia pratica del portaborse per i corridoi di Bologna, scriveva per qualche giornale facendo il volontario a Sarajevo.
Quella di Annunziata è una storia vera. Da dove nasce la sua esigenza di scrivere questo libro?

Esattamente da questo, la necessità di divulgare una verità volutamente nascosta. Come spiego nella prefazione, gli atti del processo li ritrovò mio padre con le sue ricerche negli archivi del tribunale ma poi l’Alzheimer fini per seppellirli un’altra volta in una cassapanca del suo studio. Dopo la sua morte, una estate caldissima, mi imbattei nel corposo fascicolo di carte giudiziarie che ricostruiva, con dovizia di particolari, tutte le fasi delle indagini e del processo sul caso Annunziata.

Approfittando della casa ormai deserta mi trasferii col mio cane e, godendo dell’aria condizionata che ancora non avevo, mi buttai nel lavoro di lettura e ricostruzione. Hachiko, il mio cane, parve apprezzare più di tutti quel cambio di sede e temperatura ed io mi ritrovai a scrivere il tutto in un tempo relativamente breve. Quello che si dice: quando un libro si scrive praticamente da solo. Una certa responsabilità credo ce l’abbia la mia vocazione di ricercatore. Il tempo passato a investigare tra più di quarantamila manoscritti nella Sala Zenobia a Puerto Rico fu uno dei momenti più felici della mia vita. E seguire una traccia precisa in un mare di carte è quanto più mi avvicina al fiuto del mio cane. Così i fatti narrati nel faldone si traferirono nel mio racconto in un battibaleno.

Lo definirebbe più un libro di denuncia o di memoria?
Mai più che in questo momento si può dire che la denuncia, quella dell’antisemitismo per esempio, corre parallela alla necessità di mantenere viva la memoria storica.
La denuncia di fatti del genere non sono io il primo a farla ma è giunto il tempo di sgombrare il campo da ombre, che pur allungandosi sul nostro passato, molti hanno preferito evitare se non ignorare. Non affrontare la verità intera, per ciò che è e per ciò che è stato, può paradossalmente finire per favorire coloro che la vogliono negare tout court; col negazionismo nazista per esempio.
La vittima Annunziata è emblematica di un gran numero di altre che non hanno mai avuto una tomba sulla quale i loro cari le potessero piangere. Questo è umanamente inaccettabile e non fare i conti con i propri morti può portare al riapparire di fantasmi come quelli ricomparsi in Bosnia, con le conseguenze che tutti sanno, o forse non proprio tutti.
 
“Annunziata” si discosta dalle tematiche precedentemente affrontate negli altri suoi testi. Come lo definirebbe con un aggettivo?

Come mi è capitato già di scrivere c’è un sottile filo rosso che lega le narrazioni dei miei testi ed ha quasi sempre a che fare con gli ultimi e i dimenticati. Non è un caso che sia finito a parlare ancora una volta dell’esperienza bosniaca che si ritrova proprio tra le tematiche di alcuni miei libri.

Quanto alla definizione un aggettivo temo non possa bastare. Io parlerei piuttosto di

un femminicidio di cui a nessuno, per molto tempo, è convenuto parlare.