Ci troviamo in compagnia di Fabio Graffiedi, autore di “Annunziata“, libro che è risultato il secondo classificato della prima edizione del concorso Editoriale “UNA STORIA PER IL CINEMA”. Il premio ricevuto sarà la realizzazione di un cortometraggio che verrà girato in primavera.
Avete presente il destino della ricercatrice precaria che ha isolato il coronavirus?
Nel senso comune delle persone la sua opera si traduce in qualcosa di immediatamente utile. Ma può la ricerca, in questo paese, meritare lo stesso rispetto occupandosi di poesia e letteratura, quando gli stessi scienziati che ci salvano la vita sono trattati peggio dell’ultimo degli insegnanti? Parlando di cinema, davanti alle parole “poesia” e “letteratura”, dovreste provare a immaginare l’espressione di un Cetto la Qualunque per avere un’idea di quale sia l‘atteggiamento prevalente in questi casi.
Ma visto che per una volta mi si chiede dell’esperienza formativa all’estero voglio provare a raccontare almeno un episodio esemplificativo del confronto con quella nazionale.
Peccato che Manuel Alvar non sapesse che il documento proveniva proprio dalla tesi di dottorato di un siffatto ricercatore, che aveva investigato per un anno proprio in quella sede, presso l’Università di Río Piedras a Porto Rico. Copia fotostatica del famoso documento: “A mis muy surrealistas conocidos” compare precisamente oggi alla pagina 194 della mia tesi di dottorato pubblicata da Bulzoni per il CNR. Ma a quel tempo il sottoscritto doveva attendere un anno intero che i componenti della sua commissione esaminatrice prendesse in visione il suo lavoro. Uno di questi si fregò la lettera per fare la sua bella figura in qualche conferenza in giro per la Spagna mentre il povero dottorando, anziché prestarsi alla vecchia pratica del portaborse per i corridoi di Bologna, scriveva per qualche giornale facendo il volontario a Sarajevo.
Esattamente da questo, la necessità di divulgare una verità volutamente nascosta. Come spiego nella prefazione, gli atti del processo li ritrovò mio padre con le sue ricerche negli archivi del tribunale ma poi l’Alzheimer fini per seppellirli un’altra volta in una cassapanca del suo studio. Dopo la sua morte, una estate caldissima, mi imbattei nel corposo fascicolo di carte giudiziarie che ricostruiva, con dovizia di particolari, tutte le fasi delle indagini e del processo sul caso Annunziata.
Approfittando della casa ormai deserta mi trasferii col mio cane e, godendo dell’aria condizionata che ancora non avevo, mi buttai nel lavoro di lettura e ricostruzione. Hachiko, il mio cane, parve apprezzare più di tutti quel cambio di sede e temperatura ed io mi ritrovai a scrivere il tutto in un tempo relativamente breve. Quello che si dice: quando un libro si scrive praticamente da solo. Una certa responsabilità credo ce l’abbia la mia vocazione di ricercatore. Il tempo passato a investigare tra più di quarantamila manoscritti nella Sala Zenobia a Puerto Rico fu uno dei momenti più felici della mia vita. E seguire una traccia precisa in un mare di carte è quanto più mi avvicina al fiuto del mio cane. Così i fatti narrati nel faldone si traferirono nel mio racconto in un battibaleno.
La denuncia di fatti del genere non sono io il primo a farla ma è giunto il tempo di sgombrare il campo da ombre, che pur allungandosi sul nostro passato, molti hanno preferito evitare se non ignorare. Non affrontare la verità intera, per ciò che è e per ciò che è stato, può paradossalmente finire per favorire coloro che la vogliono negare tout court; col negazionismo nazista per esempio.
Come mi è capitato già di scrivere c’è un sottile filo rosso che lega le narrazioni dei miei testi ed ha quasi sempre a che fare con gli ultimi e i dimenticati. Non è un caso che sia finito a parlare ancora una volta dell’esperienza bosniaca che si ritrova proprio tra le tematiche di alcuni miei libri.
Quanto alla definizione un aggettivo temo non possa bastare. Io parlerei piuttosto di
un femminicidio di cui a nessuno, per molto tempo, è convenuto parlare.