L’archivio potrebbe essere definito come l’insieme di quello che può essere detto, pensato e quindi anche di come si possa governare o ricostruire una società. Potremmo vedere il conflitto per il governo della memoria come una lotta per la definizione dei criteri di verità su cui si basa la definizione di una politica della convivenza democratica. Il modo in cui la memoria è conservata nell’archivio è l’effetto di quello che si sceglie di ricordare o di dimenticare. Sappiamo che non tutto ciò che accade è conservabile e che la memoria è una strategia di ricostruzione o ricognizione di ciò che vale la pena di valorizzare del passato. La memoria umana è sempre selettiva. Freud parla dell’analisi, per esempio, come di un processo di ricostruzione della memoria nel doppio senso di rammemorazione, ma anche di riorganizzazione dei fatti in una narrazione nuova, la cui sofferenza possa essere contenuta. Una nuova storia che dia senso alla vita, riutilizzi il passato in un modo tale da non restarne prigioniero, nella quale invece sia possibile percepire e accedere al futuro. Un sistema di riconoscere le differenze nella ripetizione. Nel libro sul Mal d’archivio (1995) Derrida scrive che l’archivio lavora sempre contro sé stesso perché presuppone che ci sia qualcosa fuori che possa metterlo a soqquadro e sconquassarne l’organizzazione. Uno sguardo esterno capace di ridefinirne i confini e regolarne l’utilizzo in modo nuovo. Non c’è archivio senza l’esterno, altrimenti siamo in un contesto di totalizzazione oppressiva e invivibile.
Da un po’ di tempo i nostri archivi si incontrano e si riconfigurano con l’avvento delle tecnologie digitali. Uno dei testi più produttivi e interessanti di uno dei protagonisti della rivoluzione digitale Joseph Licklider è The future of libraries (1965), libro che gli fu commissionato proprio dall’associazione delle biblioteche americane. In quel libro si anticipa quello che sarebbe successo, immaginando che la riproduzione digitale dei testi e, più in generale del sapere, avrebbe fatto collassare in un unico luogo gli spazi della ricerca: la biblioteca, il laboratorio e la testa del ricercatore. La riproduzione digitale, quindi, consente una dislocazione dell’archivio e una sottrazione della regola che lo rende fertile e che distingue ciò che è vivo da ciò che è morto nella gestione strettamente umana, in favore della creazione di un dispositivo socio-tecnico che ne ridiscute i confini e le finalità. La rappresentazione digitale sembra non avere limiti e riproduce tutti i contenuti disponibili in una “memoria” digitale, molto diversa da quella umana, perché conserva tutto senza distinzioni e restituisce identico a sé stesso, al netto di possibili malfunzionamenti delle celle del contenuto o di quelle dell’indirizzamento.
La memoria umana e quella digitale hanno in comune solo il referente unico, ma mentre la memoria umana è una costante ridefinizione e riorganizzazione del passato, quella digitale è un processo di conservazione senza interpretazione. L’archivio è uno strumento di esternalizzazione della memoria, che comunque conserva il carattere umano di apertura e sottopone i suoi documenti a una costante reinterpretazione e attualizzazione che aiuta a rimediare l’immaginazione preservando il passato e insieme reinventandolo a ogni passo. Come esseri umani siamo dipendenti dal processo di esternalizzazione tecnico che consente di preservare e attualizzare la memoria non solo nella forma genotipica ma anche in quella epigenetica e filogenetica. Le tecniche usate per conservare la memoria sono parte integrante della nostra identità, ma proprio per questo hanno una enorme importanza politica, che deve essere costantemente negoziata tra tutela dei diritti, immaginazione e creatività.
Quale futuro, quindi, per gli archivi che scelgono e conservano la memoria, in un contesto nel quale tutto viene registrato e archiviato in forma digitale in enormi contenitori di informazioni, detti cloud che di etereo non hanno nulla, ma che sono invece potenti infrastrutture industriali dislocate in luoghi geopoliticamente strategici? Come possiamo pensare in modo nuovo la relazione tra la conservazione intelligente della nostra storia umana, sociale e collettiva e la capacità dell’intelligenza digitale di predigerire e riconfezionare contenuti a partire da quelli che costituiscono il suo corpus di addestramento?
Quale futuro per la tutela della proprietà intellettuale che si propone di difendere l’opera dell’ingegno umano se queste opere non sono più il frutto della capacità puramente umana, ma sono il prodotto di un complesso sistema di archiviazione e riorganizzazione dei contenuti governati da software prodotti da umani, ma su cui è difficile mantenere la visibilità? Che cosa intendere per fair use quando la definizione di beni comuni archivistici serve a nutrire algoritmi di addestramento per la produzione artificiale di testi? Come pensare all’archivio come il luogo della produzione dell’immaginario collettivo e quindi accessibile da tutte e tutti, ma evitarne lo sfruttamento da parte di sistemi socio-tecnici che si appropriano dei suoi dati per la produzione di contenuti la cui controllabilità è impossibile? Come possiamo progettare un futuro aperto, democratico, abilitante e inclusivo per l’archivio nell’era della sua riproducibilità tecnica, le cui caratteristiche rischiano, senza regole, di prestarsi a un processo di astrazione e estrazione da parte di attori tecno-politici nella forma del free-riding dei beni comuni?
Abbiamo bisogno di una nuova politica per l’archivio e la memoria capaci di dialogare con le innovazioni tecnologiche digitali e i sistemi di intelligenza artificiale senza tradire la funzione pubblica, inclusiva, collettiva della conservazione della memoria ai fini di nutrire una immaginazione democratica, aperta, plurale, capace di intellezioni critiche e di passioni allegre.