LA SCRITTRICE MALESE CHUAH GUAT ENG ARRIVA IN ITALIA CON
“ECHI DEL SILENZIO”
EDITO DA EDIZIONI LEASSASSINE:
UN MYSTERY PER AGGIRARE LA CENSURA ED ESPRIMERE IL SUO STATO D’ANIMO
Esce nelle librerie italiane martedì 25 giugno l’opera “Echi del silenzio” (Edizioni leAssassine) di Chuah Guat Eng (蔡月英), la prima autrice malese che scrive e pubblica in lingua inglese e che fa del genere “giallo” un mezzo di critica sociale, prestando attenzione a non incorrere nella censura e nelle leggi punitive del suo Paese.
Subito dopo i disordini razziali del maggio 1969, a seguito dei quali il governo malese mise in atto una politica nazionale diretta a usare la lingua malese sia nell’ambito dell’istruzione che della burocrazia, a scapito dell’inglese e di altre lingue minoritarie, si venne a creare l’idea che l’utilizzo dell’inglese in letteratura, a cui in passato facevano ricorso i malesi di tutte le etnie, fosse un tradimento e rappresentasse un legame con i vecchi colonialisti.
Tra il 1980 e il 1990 si susseguirono poi in Malesia una serie di leggi che portarono a un’erosione dei diritti e delle libertà individuali, leggi che tuttora gravano sulla società con un impatto sulla possibilità di scrivere, esprimersi e parlare liberamente.
Così la scrittrice si è dovuta confrontare con questo cambiamento sia sociale che linguistico, visto anche che per lei l’inglese è la prima lingua e non si sente in grado di esprimersi pienamente in malese.
Il mistery diventa allora uno strumento per simbolizzare tutto quello che non va, un modo per chiedersi come si può tollerare l’ingiustizia e i crimini rimasti irrisolti e non coprire i misfatti con una coltre di silenzio. Significa chiedersi perché i suoi compatrioti hanno accettato questa violazione della giustizia e della verità. Forse è una percezione dell’autorità ereditata dal passato colonialista? O sono le varie culture e psicologie presenti nel Paese che portano ad accettare e anche a contribuire al silenzio e alla disinformazione che frustrano ogni ricerca di verità e giustizia?
Ritornando alla scelta del genere narrativo, c’era un ulteriore problema da risolvere. A chi ispirarsi per un mistery, così poco diffuso in Malesia? Agatha Christie? PD James? Mary Higgins Clark? L’autrice ritiene che la crime fiction americana e britannica sia caratterizzata da una moralità in bianco e nero e con un percorso ben delineato per arrivare al trionfo della giustizia, che non si adatta alla sua mentalità e più in generale alla realtà malese: non che intenda dire che i malesi siano amorali o manchino di un senso naturale della giustizia, ma che indipendentemente dalla loro etnicità non sono portati a chiedere il sangue di chi sbaglia. Sentono orrore e rabbia per i crimini, ma non vi è zelo per la giustizia e la punizione terrena. Come esseri umani non sono nella posizione di dare un giudizio finale o di determinare una punizione, quindi il loro universo morale è ben diverso da quello che sta alla base della crime fiction occidentale, che è un riflesso di un punto di vista razionalista e positivistico dominante da secoli in Europa.
Qui si tocca un punto particolare della vita malese: il senso di una presenza pervasiva dello spirituale, del soprannaturale, del karma. È talmente forte questo senso della forza soprannaturale sugli affari umani che quando si è vittime di bugie, furti o atti violenti, piuttosto che cercare vendetta in tribunale i malesi pensano che Dio sia grande e che quindi il debito verrà pagato nell’altra vita e non nelle aule giudiziarie. E se anche si volesse agire, amici e familiari o membri della comunità dissuadono e inducono a essere pazienti e a lasciare le cose nelle mani di Dio.
In molti romanzi persino il cattivissimo resta impunito e per far sì che questo avvenga, si ricorre a un qualche bizzarro evento o al fatto che il sistema stesso è corrotto. Il colpevole è spesso lui stesso vittima di passate ingiustizie ed evade la pena terrena grazie al silenzio dei famigliari e degli amici. Infine nel sistema malese sarebbe impensabile che la polizia permetta a un detective per passione o privato alla Sherlock Holmes di indagare su un crimine e cercare indizi. Una miss Marple o un Hercules Poirot sarebbero del tutto irrealistici. Nella stesura del romanzo l’autrice ha così pensato alla fine di rivolgersi nuovamente alla cultura orientale, traendo ispirazione da due testi indiani: Il sutra del diamante e il Mahabharata.
Nel libro vi è dunque un intrecciarsi di temi che mettono in evidenza non solo il diverso approccio alla vita dei singoli appartenenti alle diverse comunità (britannica, cinese, malese), ma anche i rapporti interraziali, di classe e tra sessi, coprendo un ampio periodo della storia di questo Paese, che ci riporta agli anni precedenti la seconda guerra mondiale. Ma essendo un crime non mancano due omicidi che avvengono nel quadro di una complessa rete di relazioni, dove un destino beffardo pare riproporre certi schemi invertendo però le parti. Così sotto i nostri occhi Chuan Guat comincia a tessere una lunga e complicata trama, che in effetti a ogni passo si fa sempre più fitta tanto da chiedersi se mai verranno sciolti tutti i nodi. Ma alla fine, come nel più classico dei gialli occidentali, questi verranno effettivamente dipanati.
SCHEDA LIBRO
Durante un soggiorno di studio in Germania, Ai Lian, una giovane malese di etnia cinese incontra e s’innamora di Michael Templeton, un inglese nato e cresciuto nel distretto di Ulu Banir, dove il padre Jonathan Templeton, ora cittadino malese, possiede una piantagione. Dopo una lunga assenza, Ai Lain ritorna a casa per assistere il padre malato e morente e, in seguito, parte per la piantagione dei Templeton, dove intende trattenersi per conoscere meglio la famiglia di Michael. Nel giorno del suo arrivo ha però luogo un omicidio, il secondo a distanza di decenni, e Ai Lian si trova ben presto coinvolta in un’intricata storia familiare. Ma il thriller, oltre alla ricerca del colpevole, con un finale davvero inconsueto per il lettore occidentale, offre molto di più: uno spaccato della Malesia e della sua storia fino ad arrivare agli anni che precedono l’Indipendenza del Paese, con gli inglesi che governano le piantagioni cercando di replicare il loro stile di vita, pur cedendo al caldo tropicale e ai costumi locali.
Titolo: Echi del silenzio
Edito da: Edizioni leAssassine
Pagine: 415
Costo: 18,00 Euro
CHUAH GUAT ENG
Chuah Guat Eng (蔡月英) è la prima autrice malese che scrive e pubblica in lingua inglese. Discendente di immigrati cinesi, i peranakan arrivati in Malesia tra il XV e il XVII secolo, è nata nel 1943 a Rembau, una piccola città del Negeri Sembilan. Oltre a Echi del silenzio, ha scritto un secondo romanzo, Days of Change e diverse raccolte di racconti, di cui alcune sono state tradotte in malese, cinese, spagnolo e sloveno. È stata lettrice di letteratura inglese all’università di Malaya Kuala Lumpur e anche alla Ludwig-Maximilian di Monaco. Oltre a essere una scrittrice, Chuah Guat è consulente di comunicazione e attualmente insegna part-time letteratura e scrittura creativa alla Nottingham Malaysia University e alla facoltà di cinema e arti multimediali di Johor.
LEASSASSINE
Edizioni leAssassine è un piccolo gruppo di appassionate/i di crime che da anni lavora nel mondo editoriale, occupandosi di scelta dei libri, traduzioni, editing e comunicazione. Vuole dare espressione a questa passione per la letteratura gialla, proponendola nelle sue svariate sfaccettature – giallo a suspence, deduttivo, hard boiled, psicologico, noir –, negli stili più diversi – fantasiosi, essenziali, sofisticati, semplici, d’antan – e nei contesti geografici più vari – Marocco, Malesia, Canada, ma anche Germania, Francia… solo un piccolo esempio dei Paesi da cui vengono le scrittrici.
Il logo della casa editrice dice più delle parole: un volto enigmatico, che rievoca donne un po’ misteriose, immerse in un’atmosfera inquietante.
La boutique editoriale pubblica letteratura gialla, declinata nei suoi vari sottogeneri. Pur spaziando dall’enigma della camera chiusa al thriller psicologico, al noir, si è cercato di trovare “un centro di gravità permanente” scegliendo per i romanzi solo scrittrici o comunque storie in cui le donne sono nel bene e nel male al centro della vicenda, talvolta vittime e talaltra vessatrici.
Si è voluto poi avere uno sguardo più ampio sul mondo e così è stato pensato di dedicarsi ai romanzi stranieri, mettendosi sulle tracce di penne che abitano i quattro angoli del globo e delle storie che più entusiasmano.
La ricerca non si è fermata al presente e la passione per il crime, come una macchina del tempo, ha portato alla scoperta di scrittrici del passato, coraggiose pioniere di questo genere. A volte potranno sembrare distanti perché soggette a certe convenzioni letterarie e sociali, ma non per questo sono meno capaci di creare atmosfere intriganti.
Come ha scritto Giuseppe Petronio, citando Walter Benjamin: “Gli interni borghesi tra gli anni Sessanta e Novanta dell’Ottocento, con i loro enormi buffet sovraffollati di intagli, i loro angoli senza sole dove si drizza una palma, i lunghi corridoi con la fiamma sibilante del gas, si prestano magnificamente a nascondere i cadaveri. Su questo sofà può benissimo essere stata ammazzata la zia”.