Il rettore della Basilica a Roma: dolore immenso, alla città dico grazie Si parte lunedì 4 aprile. Con corsi intensivi di italiano, tre o quattro volte la settimana. Per farsi capire, testimoniare, immaginare relazioni lontano dalla guerra. “A frequentarli saranno subito 150 studenti, fra i tre e i 60 anni, donne e bambini nella stragrande maggioranza dei casi” spiega all’agenzia Dire don Marco Yaroslav Semehen, rettore della basilica minore di Santa Sofia degli ucraini greco-cattolici. “Gli uomini saranno solo quattro o cinque, tutti con situazioni particolari, perché ai maschi adulti è stato vietato di lasciare il loro Paese per via della legge marziale”.
Supportati dall’ufficio migranti della diocesi di Roma e dalla fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana, i corsi sono un impegno tra tanti. Nascono da “una forte domanda” dice il rettore, accennando un sorriso mentre ricorda le proprie difficoltà appena arrivato in Italia da studente. E a Santa Sofia, basilica eretta nel 1963 nel quartiere di Boccea, uno dei riferimenti delle comunità cattoliche ucraine a Roma, insieme con san Sergio e Bacco al rione Monti e con la chiesa dei padri basiliani sull’Aventino, anche la scuola domenicale si sta trasformando. “Abbiamo aperto le classi ai bambini profughi” dice don Semehen, “e vogliamo garantire lezioni anche negli altri giorni della settimana, magari ristrutturando due o tre aule grazie all’aiuto di qualche sponsor”.
L’emergenza ha più tempi. Un mese fa, il 24 febbraio, c’è stato lo shock. “Nessuno di noi credeva che sarebbe cominciata la guerra”, sottolinea il rettore. “Per due giorni ho come avuto un blocco interno, con un dolore nel petto; poi però ci siamo attivati velocemente, sapendo che ai conflitti seguono subito i feriti, gli sfollati e le crisi umanitarie”.
Da Santa Sofia già sabato 26 febbraio è partito per l’Ucraina il primo camioncino con indumenti e altri aiuti. Poi, domenica, alla basilica sono arrivati i romani. Quel giorno soprattutto singoli e famiglie, poi associazioni e imprese. In poche settimane, con medicine, kit igienici, cibo e altri prodotti essenziali, sono partiti oltre 40 convogli da circa 20 tonnellate l’uno. “Voglio ringraziare la città per questa risposta straordinaria” dice ora don Semehen. “È un segno di come negli ultimi 20 anni e più i romani abbiano apprezzato il contributo e il lavoro delle comunità ucraine”. Almeno 230mila persone, secondo la stima del ministero dell’Interno, anche se è possibile siano molte di più. Di certo, con la guerra in corso, gli aiuti non si fermano. Bisogna raggiungere le città bombardate ma anche accogliere e accompagnare chi è arrivato in Italia. “Con i nostri volontari stiamo lavorando insieme alla Protezione civile, alla Croce Rossa, al Comune di Roma e alla Regione Lazio nella raccolta delle informazioni” riferisce don Semehen. “Tante persone, soprattutto dalla parte orientale dell’Ucraina, dove sono in corso i bombardamenti più intensi, sono fuggite senza poter prendere con sé neanche i documenti”. L’altro fronte è sanitario. “Abbiamo avviato una collaborazione con l’Asl 1 della zona di Boccea per creare un centro di accoglienza dove siano offerti tamponi anti-Covid, distribuite tessere sanitarie temporanee e assicurate prime visite pediatriche” sottolinea il rettore di Santa Sofia. C’è poi un’altra data fissata sul calendario, quella di domenica prossima. “L’ospedale Fatebenefratelli organizzerà visite mediche allestendo una tenda e con un camper presso la basilica” dice don Semehen: “Ci si concentrerà soprattutto sui bambini, indipendentemente dalla disponibilità di una tessera sanitaria, senza file e ostacoli burocratici”.
I fronti sono diversi, le difficoltà grandi. “Agli oltre tre milioni di persone che hanno attraversato il confine vanno aggiunti sei milioni di sfollati, perlopiù in spostamento dall’est all’ovest dell’Ucraina” sottolinea il rettore. “E ci sono poi le decine di migliaia di profughi già giunti in Italia”.
Dal nord al sud della penisola, Santa Sofia è in rete con 147 comunità ecclesiali ucraine, ora impegnate nell’aiuto e nell’accoglienza. Alcuni profughi sono arrivati dalle regioni occidentali dell’Ucraina, finora meno bombardate, magari anche contando sull’aiuto di parenti già in Italia. Altri sono riusciti a raggiungere la Polonia e il territorio dell’Unione Europea partendo dalla capitale Kyiv o dalle città orientali di Kharkiv e Sumy, dopo essere scappati portando con sé solo alcune buste o una valigia. “Adesso” dice don Semehen, “hanno bisogno di tutto”.
fonte agenzia dire.it